La prova nei processi di violenza di genere: l’attendibilità della vittima alla luce delle recenti riforme legislative
Negli ultimi anni, il tema della violenza di genere ha assunto un ruolo centrale nel dibattito giuridico e sociale italiano, portando a significative riforme legislative volte a garantire una maggiore tutela delle vittime e a rafforzare l’efficacia del sistema giudiziario. Tra le principali novità normative, spiccano il “Codice Rosso” (legge n. 69/2019), la legge n. 122/2023 e la legge n. 168/2023, che hanno introdotto misure per accelerare i tempi di intervento delle autorità, assicurare la priorità nella trattazione dei reati di violenza domestica e di genere e migliorare la protezione delle vittime. Inoltre, la Riforma Cartabia ha dedicato una sezione specifica del codice di procedura civile agli abusi familiari e alla violenza di genere, prevedendo strumenti come la secretazione dell’indirizzo della vittima per garantirne la sicurezza.
Queste riforme hanno posto l’accento anche sulla necessità di evitare la “vittimizzazione secondaria”, ovvero il trauma aggiuntivo che può derivare dal processo giudiziario stesso. In questo contesto, la prova nei processi di violenza di genere assume un ruolo cruciale, soprattutto per quanto riguarda l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima, spesso unica testimone dei fatti.
La prova nei reati di violenza di genere: un equilibrio delicato
La prova nei processi di violenza di genere richiede un delicato equilibrio tra la tutela dei diritti della vittima e il rispetto delle garanzie dell’imputato. Le dichiarazioni della vittima, pur costituendo una prova centrale, devono essere valutate con rigore e sensibilità, evitando ogni forma di pregiudizio o stereotipo. La giurisprudenza ha consolidato alcuni principi fondamentali per la valutazione delle dichiarazioni della vittima nei reati di violenza di genere. In particolare, si riconosce che tali dichiarazioni possono costituire prova piena anche in assenza di riscontri esterni, purché siano sottoposte a un rigoroso controllo da parte del giudice. Questo approccio si basa sulla consapevolezza che la violenza di genere si consuma spesso in contesti privati e riservati, senza testimoni diretti.
Criteri di valutazione dell’attendibilità:
1. Coerenza e precisione del racconto: Le dichiarazioni della vittima devono essere analizzate per verificarne la coerenza interna e la capacità di fornire dettagli precisi e circostanziati. La Corte di Cassazione ha ribadito che la deposizione della vittima può essere considerata attendibile anche in assenza di riscontri esterni, purché il racconto sia logicamente strutturato e privo di contraddizioni evidenti (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 23203/2018).
2. Riscontri esterni: sebbene non indispensabili, i riscontri esterni possono rafforzare la credibilità della vittima. Ad esempio, le confidenze rese a terzi in un contesto di normalità o le testimonianze de relato di familiari e psicologi possono costituire elementi di supporto (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 44090/2018).
3. Condizioni psicologiche della vittima: nei casi di violenza sessuale su minori, la valutazione dell’attendibilità deve tenere conto delle condizioni psicologiche della vittima, della sua capacità di percepire e riferire i fatti, e delle eventuali influenze esterne. Le linee guida della “Carta di Noto” rappresentano un riferimento metodologico per garantire un approccio scientifico e rispettoso durante l’audizione della vittima (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 13737/2016).
4. Assenza di motivi calunniatori: è fondamentale escludere la presenza di intenti calunniatori o strumentali da parte della vittima. La giurisprudenza ha sottolineato che, in assenza di elementi che facciano sospettare un intento doloso, il giudice deve presumere la veridicità delle dichiarazioni della vittima (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 37594/2021).
5. Valutazione frazionata delle dichiarazioni: la Corte di Cassazione ha chiarito che è possibile valutare la credibilità della vittima procedendo a una “valutazione frazionata” delle sue dichiarazioni, purché non vi sia contraddizione fattuale e logica tra le diverse parti del racconto (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 37594/2021).
La vittimizzazione secondaria e il ruolo del giudice
Le recenti riforme legislative e le pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) hanno evidenziato l’importanza di proteggere la vittima da ulteriori traumi durante il processo. La sentenza della CEDU nella causa J.L. c. Italia (n. 5671/16) ha condannato l’Italia per non aver adeguatamente tutelato la dignità e la vita privata della vittima di violenza sessuale, sottolineando la necessità di evitare stereotipi sessisti e affermazioni colpevolizzanti nei procedimenti giudiziari. La Convenzione di Istanbul e la direttiva europea 2012/29/UE hanno imposto agli Stati membri di adottare misure per proteggere la vita privata e l’immagine della vittima durante il procedimento penale, evitando domande non necessarie sulla sua vita personale e sessuale. Sul punto, anche la Riforma Cartabia ha introdotto strumenti come la secretazione dell’indirizzo della vittima e la possibilità di essere ascoltata in modalità protetta, per garantire la sua sicurezza e ridurre il rischio di vittimizzazione secondaria.